martedì 21 giugno 2016

Alla ricerca di Nemo

Alla ricerca di Nemo è un film d'animazione/avventura/commedia del 2003 diretto da Andrew Stanton, Lee Unkrich.

Alla ricerca di Nemo
Trama
Nemo è un piccolo pesce pagliaccio, unico sopravvissuto della covata di sua madre.
La vita del piccolo nemo trascorre felice e tranquilla nei fondali del mare, almeno fino a quando non decide di allontanarsi imprudentemente da casa.
Catturato e portato in Australia come pesce d'appartamento, Nemo però non finirà i suoi giorni in un acquario, perchè suo padre, Marlin, farà di tutto pur di riportarlo a casa.
Aiutato da Dory, un pesce chirurgo con gravi problemi di memoria, Marlin partirà per un lungo viaggio alla ricerca di Nemo.

Recensione
Alla ricerca di Nemo è un bellissimo film d'animazione della Disney.
So cosa state pensando: film d'animazione = film per bambini.
Invece non è propriamente così.
Alla ricerca di Nemo è infatti un film adatto a tutti, con una trama semplice ed interessante, per i più piccoli e per gli adulti rimasti un po' bambini, che amano sognare.
Musiche avvincenti ed una stupenda grafica completano il quadro su questo bellissimo film targato Disney.

Link alla scheda del film su wikipedia

lunedì 20 giugno 2016

1000 Post!!!

Secondo festeggiamento dell'anno per il blog Oggi è un altro post.
Dopo aver festeggiato il primo compleanno del blog, eccoci qui a brindare per il millesimo post!

1000 Post!!!

1000 post in poco più di un'anno di attività non sono male, considerando che questo sito lo aggiorno tutto da solo. Tuttavia posso fare sicuramente di più, dato che ho iniziato a postare più articoli al giorno solo da pochi mesi.

Ma questo si può ancora chiamare blog?
Un blog in effetti è un sito web dove una persona scrive un articolo interessante e tutti gli altri commentano a ruota in stile social network, come una sorta di diario personale.
Qui invece i commenti sono ben pochi, anche se le visite sono comunque molte (stando a google analytics ;)), questo vuol dire che gli articoli bene o male sono apprezzati :p

Quindi un saluto a tutti i visitatori anonimi e non, dal vostro amato Oggi è un altro blog... ehm, post :)

Ci rivediamo alla prossima ricorrenza, che potrà magari essere il centomillesimo visitatore, o anche no... vediamo :p
Leggi il post

Tecniche del colloquio (11/16): Evoluzione storica del colloquio

I colloqui clinici fatti da operatori di formazione diversa sono differenti, e gli elementi di diversità sono:
  • la scelta delle aree di indagine
  • la tecnica di domanda
  • il modo in cui l'operatore si relaziona col paziente
In generale:
  • il colloquio è lo strumento d'elezione per qualsiasi operatore della salute mentale
  • il colloquio assume caratteristiche specifiche in base al modello etiopatogenetico del clinico e la sua conduzione dipende dal modello di disturbo psichico prescelto
  • il colloquio è uno strumento di ricerca, usato per confermare o accantonare alcune ipotesi
  • il colloquio è lo strumento d'elezione per molte tecniche psicoterapeutiche
I colloqui vengono classificati in base:
  • al loro scopo
  • al tipo di modello etiopatogenetico del clinico
  • ad alcune caratteristiche della relazione col paziente (es. colloqui direttivi e non direttivi)
  • al contesto terapeutico in cui sono usati
  • ad un elemento clinico specifico del paziente (colloquio con paziente violento, timido, ecc...) 


Gli anni 40


All'inizio degli anni 40 il disturbo psichico è considerato un disturbo di tipo medico, per il quale può essere indicato anche il ricovero in una struttura ausiliare.
Il modello medico di disturbo psichico è considerato come un modello meccanico (la parte malata della psiche equivale alla parte malata dell'organismo), ma progressivamente la malattia mentale diventa un disturbo di interesse psicologico.
In questi anni, lo psicologo clinico non è deputato a curare perchè lo spazio terapeutico è in mano ai medici e solo progressivamente questa cosa cambia e passa in mano agli psicologi, a causa dei troppi casi presenti durante la seconda guerra mondiale che i medici non riescono a gestire e grazie a nuove tecniche terapeutiche di origine non medica.
Con l'avvento di Hitler molti psicologi e psicoanalisti fuggono in America, dove trovano un terreno molto fertile dato dalla psichiatria americana, e successivamente anche le strutture manicomiali iniziano a ricevere pesanti critiche, a causa dell'aspetto segregante e dei limiti terapeutici.
All'inizio nonostante i tentativi innovativi, i trattamenti continuano a basarsi sull'uso di farmaci sedativi e sul ricorso a terapie somatiche, e solo alla fine degli anni 40 (1947) il National Mental Act sancisce la necessità di formare degli operatori per trattamenti non esclusivamente medici.


Manca un sistema diagnostico consensuale e lo schema diagnostico più usato è quello kraepeliniano, dove i disturbi sono considerati entità fisse con andamento prevedibile, e assieme a questo modello si usano alcuni di stampo psicoanalitico.
Successivamente Glover individua l'esistenza di nessi tra disturbo psichico ed istanze del modello strutturale, creando le basi per la nosografia psicodinamica.
Inizia ad essere al centro dell'attenzione la possibilità di individuare il trattamento più adeguato per il paziente, anche se gli strumenti a disposizione sono ancora pochi e i risultati sono ancora scarsi, è cmq l'esordio della teoria clinica (il primo psicologo clinico compare negli anni 50).
Nel modello del colloquio non psichiatrico, il focus si sposta dalla raccolta dei dati alla qualità della relazione con il paziente, tuttavia il tentativo di esportare il modello psicoanalitico negli ospedali ha molti problemi (vengono cmq usati il transfert e il controtransfert), e alla fine degli anni 40 si tenta invece di differenziare il colloquio clinico dall'esame psichico.
Infine l'attenzione si sposta dai dati oggettivi, che contraddistinguono l'esame psichico, ai dati soggettivi, che diventano un elemento integrante per la formulazione della diagnosi.



Gli anni 50-60


In questi anni, compare il primo sistema classificatorio consensuale (DSM-I) si modifica il modello medico di disturbo psichico (da meccanico a biomedico) e vengono cercati modelli alternativi.

Il DSM-I viene pubblicato nel 1952 con l'obiettivo di fornire ai diversi operatori uno strumento di comunicazione consensuale.
L'orientamento prevalente è quello di A. Meyer, che contestualizza i disturbi psichici come reactions, ovvero come reazioni psicobiologiche a stress esistenziali muticausali.
In questi anni: compaiono gli ansiolitici, gli antidepressivi, il litio viene usato per curare gli episodi maniacali e depressivi, escono i primi farmaci antipsicotici per il trattamento della schizofrenia, nascono alternative al manicomi (es. day hospital, comunità terapeutica), nascono i primi modelli sociogenetici del disturbo psichico, i modelli behavioristi, umanistici, esistenziali, compaiono psicoterapie brevi, i trattamenti familiari e le terapie di gruppo, nascono nuove categorie (pazienti psicosomatici, con disturbo della condotta, ecc...).
Il colloquio quindi viene usato in modo diverso, lo strumento cambia in base allo scopo, alla specificità della relazione con il paziente, alle caratteristiche del paziente e al contesto terapeutico.
Nel 1955 il Mental Health Act stabilisce che l'obiettivo del trattamento dei pazienti affetti da gravi disturbi psichiatrici è quello di metterli in condizione di vivere in modo normale, inseriti nella comunità.

Si ha un evoluzione del modello di colloquio, dove i dati che arrivano dall'esame psichico vengono integrati con quelli della struttura della personalità.
Il colloquio psichiatrico cambia, non è più sufficiente un colloquio di tipo domanda e risposta, ma si ha il libero scambio tra psichiatra e paziente, mentre nell'ambito psicoanalitico si passa dall'attenzione nel primo colloquio dai dati associativi ai dati oggettivi.
Nei colloqui psicoanalitici di questi anni, bisogna:
  • raccogliere dati anamnestici che emergono dalla descrizione della vita del paziente
  • conoscere i motivi che hanno portato il paziente a cercare aiuto e le condizioni della sua vita attuale (interessi, ecc...)
  • comprendere quanto il problema del paziente sia interno o reattivo all'ambiente
  • studiare i sintomi e cercarne le connessioni con gli aspetti della vita del paziente
  • far emergere tramite domande, gli elementi emotivi inconsci
La funzione dell'intervista psicoanalitica diagnostica è quella di aiutare il clinico a ricordare i punti essenziali da indagare, inoltre, tanto più il paziente è disturbato e tanto è maggiore l'importanza di informazioni supplementari provenienti da familiari o altri operatori.

Si ipotizza che il disturbo psicosomatico sia più facilmente diagnosticabile e trattabile usando un modello psicoanalitico, e si pensa che bisogna osservare più che modificare il comportamento del paziente.
L'anamnesi associativa è un metodo per mantenere la situazione del colloquio non contaminata dai pregiudizi e dalle fantasie del medico, e per scoprire le fantasie inconsce del paziente, i suoi desideri, le sue inclinazioni, ed il rapporto tra tutto questo e quello che il paziente lamenta, dove bisogna non solo registrare ciò che il paziente ha detto, ma anche come lo ha detto.
In questo metodo si chiede al paziente di dire non solo ciò che pensa, ma anche ciò che sente, si evitano domande chiuse e si fanno interventi finalizzati a facilitare la comunicazione (tecnica associativa), inoltre, il clinico ha un ruolo passivo.

H.S. Sullivan (1954) propone un modello di colloquio per il disturbo psichico che si basa su 3 presupposti teorici:
  1. non si può mai isolare una personalità dal complesso di relazioni interpersonali in cui la persona vive
  2. la personalità si manifesta nelle situazioni interpersonali e in nessun altro modo
  3. gli atti di una persona hanno origine da un complesso di fattori e la nostra osservazione di questi atti è influenzata dalle nostre esperienze precedenti
Quindi l'attenzione si posta dall'intrapsichico all'interpersonale.
Sullivan cambia la definizione di disturbo mentale, dicendo che per avere un senso deve arrivare a coprire tutto il campo degli atti inadeguati rispetto alle relazioni interpersonali.
In questo modello il clinico è un osservatore-partecipante (con ruolo attivo di conduttore che fa domande), che instaura un clima emotivo favorevole per tentare di modificare i comportamenti del paziente.
I presupposti del rapporto esperto cliente sono:
  • il paziente è estraneo, e va trattato come tale
  • le relazioni interpersonali sono soggette a mutamenti, anche nel corso del colloquio
  • il paziente è una persona simile allo psichiatra, e come tale deve essere trattato
  • lo psichiatra deve dare informazioni al paziente che gli consentano di capire il proprio funzionamento
M. Gill (1954) vuole creare un modello di colloquio che sia al di là dei vari orientamenti (psicoanalitico, psichiatrico, ecc...), ma che sia uno strumento adeguato alla realtà clinica del paziente.
Secondo Gill:
  • il colloquio è uno strumento diagnostico e terapeutico di elezione in psichiatria, con l'obiettivo di instaurare un rapporto tra 2 persone sconosciute, di dare una valutazione della situazione psicosociale del paziente e di rafforzare il desiderio del paziente di intraprendere la terapia, e le finalità del colloquio sono la formulazione della diagnosi e l'indicazione del trattamento, mentre le aree da indagare riguardano la natura del disturbo, la motivazione al trattamento, l'analisi dei fattori interni ed esterni
  • l'andamento del colloquio è influenzato dalla personalità degli interlocutori, dalle reciproche percezioni di ruolo, dagli scopi e dalla tecnica usata
  • la situazione del colloquio è ansiogena per entrambi gli interlocutori, che mettono in atto azioni difensive in base alla loro personalità
  • fare bene il primo colloquio significa ottenere informazioni indispensabili per la diagnosi
  • la tecnica di conduzione del colloquio cambia quando si passa dalla fase diagnostica a quella finalizzata all'indicazione 


Dalla fine degli anni 60 ai primi anni 90


In questo periodo diminuisce l'importanza attribuita al colloquio clinico perchè la teoria clinica ed i diversi modelli di disturbo psichico subiscono molti cambiamenti, e con Bateson e la scuola di Palo Alto, il disturbo psichico è considerato una conseguenza di una distorsione della comunicazione e delle interazioni tra i membri del gruppo, e quindi perde la connotazione medica.
Si riduce il potere esplicativo dei modelli organogenetici e psicogenetici ed aumenta quello dei sociogenetici.


Gli indirizzi in psichiatria di questo periodo sono:

scuola teoria di riferimento campo di applicazione
psichiatria biologica medicina farmacologia, studi genetici, ricerche sul SNC
psichiatria psicoanalitica concetti psicoanalisi freudiana, psicologia dell'Io psicoterapia ad orientamento psicoanalitico e psicoanalisi
psichiatria interpersonale psicologia sociale, psicologia evolutiva, teoria interpersonale psicoterapia con i pazienti schizofrenici, depressi o altri quadri psicopatologici gravi
psichiatria sociale sociologia, antropologia, altre scienze sociali studi epidemiologici, psichiatria sociale e di comunità, sociologia
psichiatria cognitivo-comportamentale learning theory, psicologia cognitiva, comportamentismo terapie comportamentali, terapie cognitive, trattamento sintomatico

Modello organogenetico: psichiatria biologica
Si considera disease qualsiasi condizione che sia associata a fastidio, dolore, invalidità, morte o una maggior propensione a tali condizioni, che sia considerata dal medico e dal profano, propriamente di responsabilità medica.
Per disease si intende un cluster di sintomi e/o segni che hanno andamento più o meno prevedibile, inoltre il termine malattia mentale include tutte le deviazioni che possono portare la persona a diventare paziente, e si intende la malattia mentale come disease associato ad una sindrome clinica o legato ad un disturbo biologico.

Modello sociogenetico: antipsichiatra
Gli psichiatri non si occupano di malattie mentali e del loro trattamento, ma hanno a che fare con difficoltà di carattere personale, sociale ed etico.

Modello psicogenetico: psichiatria psicoanalitica
I fenomeni mentali sono il risultato di un conflitto che deriva da forze inconsce opposte che possono essere un desiderio e una difesa contro tale desiderio, oppure diverse parti intrapsichiche con finalità differenti, oppure un impulso in contrasto con la consapevolezza interiorizzata delle richieste della realtà esterna.

Modello psicogenetico: pragmatica della comunicazione
La condizione del paziente non è statica, ma varia al variare della situazione interpersonale e dell'ottica preconcetta dell'osservatore, quindi si considerano i sintomi psichiatrici come un comportamento che si adegua a una interazione in corso.

Modello psicogenetico: organizzazioni cognitive personali
Ottica sistemico-processuale dove si pensa che le molte manifestazioni psicopatologiche siano ricondotte a pochi modelli di chiusura organizzazionale, i quali possono produrre molti modelli cognitivi, emotivi e motori nel tentativo di ordinare specifiche oscillazioni perturbative.

Alla fine degli anni 60 esistono operatori di diversa formazione (psichiatra, psicologo clinico, psicoterapeuta) che spesso propongono metodologie d'intervento in conflitto tra loro, ci sono diverse strutture di ricovero e molti psicofarmaci in circolazione.
Ogni modello cerca di circoscrivere il proprio territorio ed il confronto e l'integrazione è molto problematico, c'è un clima di guerra (es. psichiatri vs psicoterapeuti vs psicologi clinici) e la conflittualità spesso è presente anche all'interno dello stesso modello.
Le strategie cliniche sono ancora limitate e la sofferenza psichica è ancora di difficile definizione, si ha difficoltà quindi a dare le definizioni anche per colpa di questi conflitti, e chi fa parte di una determinata scuola definisce in un certo modo e opera metodologicamente secondo il credo dei propri insegnanti, in contrasto con altre scuole.

Alla fine degli anni 60 prevale l'impronta sociogenetica antipsichiatrica, che ricollega la malattia mentale a disfunzioni sociali e usa di più concetti come sentimenti, intuizione, empatia, incontro, sensibilità e spontaneità al posto di concetti come analisi, verifica e valutazione.
In questo modello, la malattia mentale è vista come un insieme di comportamenti politicamente definiti e socialmente rinforzati.
In questo periodo si provano le forme alternative di ricovero (perchè si criticano i manicomi come case di reclusione), come day hospital, half-way houses, comunità terapeutiche, night hospital, ma sopraggiungono problemi conseguenti alla deistituzionalizzazione (ci sono ad esempio molti malati che vagano per le strade).

Col tempo il modello sociogenetico perde di interesse e riemerge il modello medico con l'interesse per la diagnosi, e nel 1968 esce il DSM-II, che però presenta diversi limiti: è vago, incoerente, debole empiricamente, e quindi di scarsa utilità sia per i clinici che per gli psichiatri che si occupano della ricerca.
Nel 1980 esce il DSM-III, strumento nosografico-descrittivo di matrice psichiatrica, costituisce l'affermazione del modello medico di disturbo psichico.
Nel 1986 esce il DSM-III-R, che modifica i precedenti criteri diagnostici, cambia la classificazione di alcuni disturbi come la schizofrenia, i disturbi affettivi, i disturbi nevrotici e i disturbi di personalità.

Si afferma la visione multideterministica del disturbo psichico, che afferma che l'etiologia della maggior parte dei disturbi è multipla, ha quindi basi biologiche, sociali, psicologiche e quindi va curata con le metodologie delle varie scuole.
E' vero cmq che ogni clinico usa un modello diagnostico specifico per la propria scuola e quindi ad esempio esistono 3 modelli con trattamenti diversi per il disturbo borderline.
La psicoterapia è la classe vincente (al posto della psichiatria), e da li ogni tecnico usa le metodologie della propria scuola di appartenenza.

Si inizia a pensare alle indicazioni e alle controindicazioni nell'utilizzo delle varie metodologie, e i presupposti per l'utilizzo di tali metodologie sono:
  • le psicoterapie usano metodologie diverse tra loro che prendono in considerazione aspetti diversi della vita del paziente
  • le psicoterapie non producono gli stessi effetti
  • le psicoterapie non sono procedure innocue
  • esistono molte psicoterapie e spetta allo psicologo di scegliere quella adeguata
I trattamenti possono avere anche esito negativo e ciò può dipendere dal paziente, dal terapeuta, dalla qualità della loro interazione, dagli errori nell'uso della tecnica o dalla sua non idoneità, e quindi la scelta del trattamento diventa molto importante, tanto che vengono creati alcuni modelli per formalizzarla: il modello multimodale, il modello transteoretico (uno stesso sintomo in pazienti diversi può essere disturbante a livelli diversi), il modello sistematico eclettico (prende in considerazione la complessità del sintomo, il potenziale di reattività, lo stile difensivo del paziente), il modello differenziale (considera anche interventi non proprio psicoterapeutici ed è molto flessibile).

Dalla fine degli anni 60 fino agli anni 90 gli aspetti tecnici dello strumento e il suo legame con la teoria clinica perdono significato, nascono nuove terapie farmacologiche, gli operatori prestano poca attenzione al colloquio, che prende un significato specifico solo nell'ambito della tecnica terapeutica.
I lavori sul colloquio si dividono in:
  • colloqui che usano il modello nosografico-descrittivo del DSM
  • colloqui specializzati, organizzati in base ad uno specifico orientamento teorico
Si passa dal colloquio insight-oriented al colloquio symptom-behavior-oriented che presuppone che i disturbi psichiatrici si manifestano con set caratteristico di segni, sintomi e comportamenti, che abbiano un andamento prevedibile, una specifica risposta al trattamento e una certa familiarità, e l'obiettivo di questo tipo di colloquio è quello di classificare i disturbi del paziente in base a categorie diagnostiche definite.

Il modello multifasico di E. Othmer e S.C. Ohtmer è finalizzato a formulare una diagnosi nosografica DSM, dove si afferma che il paziente ha i pezzi del rompicapo ed il clinico conosce il disegno che deve ricomporre.
Per formulare una diagnosi con questo modello bisogna:
  1. osservare gli indizi diagnostici
  2. individuare il problema
  3. fare il follow-up delle impressioni iniziali
  4. fare anamnesi remota (raccogliere una anamnesi premorbosa per poter indagare sull'andamento del disturbo)
  5. ottenere un quadro completo
  6. fare la diagnosi
  7. prognosi
L'ordine di questi punti è spesso determinato dal paziente, per questo motivo non esiste una modalità di colloquio adeguata per tutti i pazienti.

Vengono creati colloqui strutturati e semi-strutturati con lo scopo di risolvere il problema della scarsa validità e attendibilità diagnostica.
Si cerca di costringere il clinico a raccogliere i dati in maniera preordinata e obbligarlo a riferirsi a categorie diagnostiche precise che attribuiscono lo stesso significato a gruppi di sintomi, ci sono quindi dei protocolli da seguire con domande precise da fare.

I colloqui di tipo psicodinamico si dividono in colloqui basati sulla dinamica delle strutture intrapsichiche e colloqui centrati sulle relazioni oggettuali e il funzionamento interpersonale.
Gli obiettivi di questi colloqui sono di ottenere elementi significativi (informazioni) e creare un'atmosfera che permetta al materiale inconscio di emergere.
La relazione che si instaura col paziente non è definita a priori, ma vuole cmq permettere al paziente di mostrasi per come è, e quindi il colloquio va condotto in base alle caratteristiche del paziente, ed il ruolo del clinico è quello dell'interlocutore che non interviene attivamente nel colloquio, inoltre vanno valutate le qualità delle relazioni oggettuali e l'organizzazione del mondo delle rappresentazioni interne.
Le funzioni dell'Io da valutare nel colloquio sono: rapporto con la realtà, regolazione e controllo delle pulsioni sessuali e aggressive, processi di pensiero, meccanismi di difesa, funzioni autonome, funzioni sintetiche, relazioni oggettuali.
Le funzioni del Super-Io da valutare sono invece: coscienza, ideale dell'Io.
Il risultato di questa psicoterapia è strettamente correlato con la comprensione che si ha del paziente.

L'approccio comportamentale pone particolare attenzione alla possibilità che il comportamento sia provocato da stimoli ambientali, quindi una parte del colloquio deve essere orientata ad identificare gli stimoli che possono provocare il comportamento problematico, per poi analizzare le conseguenze di tale comportamento.
Secondo questo approccio ci sono aree comuni da indagare nei vari pazienti e aree specifiche in base al tipo di disturbo.
Il colloquio diagnostico di questo orientamento considera 3 modalità di risposta conseguenti allo stimolo (comportamento manifesto, componenti cognitive, attività fisiologica) e valuta quali eventi possono aver contribuito a scatenare, ridurre o mantenere il comportamento, ed indaga i pensieri e le emozioni che causano il comportamento-problema.
Bisogna indagare sugli antecedenti al problema (che possono essere di tipo affettivo, somatico, comportamentali, cognitivi, legati all'ambiente e ai rapporti interpersonali): nell'immediato quali situazioni preesistenti al verificarsi della situazione problematica rendono più probabile la sua comparsa, quali la rendono meno probabile e quali altre situazioni precedenti influenzano ancora la comparsa del problema.
Le aree di indagine sono: informazioni generali, dati evolutivi (salute), problema attuale (evoluzione), natura del problema, caratteristiche del problema, eziologia, mantenimento, trattamenti precedenti, altro (motivazione, aspettative).


Gli anni 90


Si riduce la tendenza alla differenziazione tra i modelli di disturbo psichico e aumenta quella a far cercare elementi di integrazione, aumentando anche la concordanza tra le aree da indagare tra le varie scuole e si pone di più l'attenzione al trattamento più adeguato per il paziente.

Il tentativo di integrazione dei modelli è reso possibile grazie a 3 fattori:
  1. la minor considerazione della validità e attendibilità della diagnosi psichiatrica
  2. il riconoscimento dei limiti intrinseci alla scelta di ateoricità dei DSM
  3. il riconoscimento della multicausalità dei disturbi psichici
Si incomincia a delineare in psichiatria la figura di un operatore della salute mentale, che pur avendo alcune specificità dovute alla propria scuola, ha aree di intervento comuni: la formulazione della diagnosi e della prognosi, l'indicazione e la controindicazione ai trattamenti.

La diagnosi può assumere caratteristiche negative se diventa:
  • un esercizio di incasellamento nosologico al posto che un processo di chiarificazione
  • un rapporto statico e passivo con il paziente
  • un'attività prevalentemente centrata sul clinico invece che un compito condiviso con il paziente
L'efficacia del trattamento è la conseguenza di una serie di decisioni specifiche e mirate prese in momenti successivi, e quindi non è possibile sviluppare un trattamento efficace con informazioni prese solo in un determinato momento o in base a caratteristiche statiche di un paziente.

Gli anni 90 si contraddistinguono perchè vogliono diagnosticare e curare al di là dei modelli delle scuole, si è smesso di cercare il trattamento più efficace in assoluto e si è iniziato a considerare l'efficacia dei singoli modelli a seconda dei casi specifici.
Si è fatta differenziazione tra colloqui specializzati e colloqui clinici di consultazione, dove i primi sono organizzati in base ad un preciso orientamento teorico, mentre i secondi impostano tutto in base ad ogni singolo caso specifico (il colloquio clinico, se ben condotto, non deve avere nessuna scelta preordinata).
Si scopre la necessità di una buona alleanza diagnostica, che è un rapporto emotivo particolare tra clinico e paziente che consente di trovare uno o più oggetti comuni di lavoro, dove entrambi abbiano un ruolo e delle competenze da mettere a disposizione per svolgere il compito pattuito.
Questa alleanza è un risultato dovuto alle capacità del clinico e alle caratteristiche personali del paziente (comprese le sue esperienze passate), ed è la condizione fondamentale perchè si possa formulare la diagnosi, nonché la garanzia implicita dell'attenzione al modello del paziente.
Nel 1993 J. Morrison svolge un lavoro sul primo colloquio, rivolgendosi a tutti gli operatori, affermando che l'operatore fa un buon colloquio se sa ottenere nel minor tempo possibile le informazioni necessarie per la diagnosi e l'indicazione al trattamento, mantenendo al tempo stesso una buona alleanza di lavoro.
Secondo Morrison tutti i clinici dovrebbero riuscire a vedere il paziente dal punto di vista biologico, dinamico, sociale e comportamentale, dato che ogni paziente può aver bisogno di trattamento in una o più di queste aree.

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Tecniche del colloquio (10/16): Il processo diagnostico

Il processo diagnostico si è evoluto col passare del tempo, ad esempio le indicazioni da fornire in relazione a particolari caratteristiche di uno specifico paziente sono diventate un passaggio secondario rispetto al fatto sempre più evidente che la consultazione diagnostica, opportunamente condotta, può funzionare e ha una sua utilità.
Col passare del tempo è diventato importante, tramite la processualità del lavoro diagnostico, comprendere meglio (dal vivo) il funzionamento del paziente.
Spesso bisogna non considerare sufficiente la categoria nosografica d'appartenenza, bisogna avere prudenza nel trattamento, dato che ci possono essere importanti differenze in casi apparentemente simili.
Quindi, la prima alleanza diagnostica da prendere in considerazione è quella del clinico con il metodo clinico.

La definizione nosografica può avere un effetto importante sul paziente, può creare alleanza e comprensione sapere il nome della propria patologia, può far ridurre le paure il sapere di non essere affetti da un male sconosciuto.
Purtroppo però le etichette sono spesso un problema, le persone etichettate tendono a sbandierarlo, ad usarlo come giustificazione, e cartelle cliniche con diagnosi molto severe possono togliere la speranza al paziente.

La diagnosi funzionale è importante, in alcuni casi è determinante ed indicativa la modalità con cui il paziente affronta la propria difficoltà all'inizio della consultazione, ed è quindi importante esaminare il criterio usato dal paziente.
Questa diagnosi può essere propria del paziente o derivata da precedenti operatori, e può anche capitare che in presenza del clinico questa si modifichi, per poi tornare come all'inizio sotto l'influenza di altre persone.

La diagnosi alloplastica si ha quando il paziente esprime (descrivendo il suo malessere come causato dagli altri) quanto la sua esistenza sia influenzata da persone che la determinano, e se il clinico non conferma questa diagnosi può capitare che la paranoia del paziente aumenti, facendogli credere che anche il clinico lo consideri un colpevole.
Quindi, quando si deve dire il proprio punto di vista al paziente non si può non considerare come questi maneggi la realtà, le relazioni e le sue emozioni, e quindi spesso non bisogna insistere nell'imporre il proprio punto di vista al paziente, ma bisogna trovare il modo di mostrargli anche altri punti di vista.
La traduzione della diagnosi in esplicazione del funzionamento del paziente ha la finalità di fornire al paziente strumenti di comprensione che gli permettono una possibile riorganizzazione della percezione di sè.
Il processo diagnostico si conclude con la restituzione e solo successivamente con un'eventuale indicazione, ed esso, se fatto bene, è in grado di ridurre il numero di trattamenti a termine (ovvero il trattamento può essere meno lungo se c'è una buona diagnosi inziale).


Il processo diagnostico


E' quanto accade nella situazione diagnostica e in un contesto di sufficiente alleanza, in un ordine di tempo definito e sufficiente, procedendo per acquisizioni successive degli elementi significativi dell'organizzazione del paziente.
A volte capita che lo stesso paziente fornisca la sua restituzione prima della nostra.


La situazione diagnostica è caratterizzata dal fatto di essere una sorta di stato di tregua, che avviene in un clima emotivo dove ogni giudizio è sospeso (sia da parte del clinico che del paziente), e sono anche sospese le decisioni riguardo qualunque tipo di intervento.
Bisogna anche essere capaci di avvalersi della storia e delle vicissitudini di eventuali interventi diagnostici/terapeutici precedenti.

Occorre anche distinguere una sana alleanza terapeutica da una situazione patogena dove il paziente è completamente assoggettato dal clinico e prende qualsiasi frase come un ordine.
L'alleanza diagnostica è una componente indispensabile per lo svolgersi del processo diagnostico, ed è clinicamente diversa dall'alleanza terapeutica, anche se in alcuni casi può esserne precursore.

Gli ostacoli all'alleanza diagnostica possono nascere in quei pazienti che vogliono subito delle risposte, e in questo caso bisogna capire se si tratta di reali problemi da risolvere subito o semplice impazienza.
Un altro impedimento alla diagnosi è la paura del paziente verso il suo stato ed il suo destino, egli può infatti avere paura di far emergere paure nascoste, e quindi che queste si consolidino e diventino realtà, e in generale, il paziente di solito è poco disposto ad accettare diagnosi in contrasto con i propri vissuti (quindi mentire per tranquillizzarlo non sempre è utile).
Ci può infine essere reticenza per vergogna o per attività criminale.

Il processo diagnostico che si è avviato con la prima consultazione procede per approssimazione ed ipotesi successive verso l'acquisizione di elementi significativi relativi ai vari livelli della complessità organizzata del paziente (somatico, intrapsichico, interpersonale, micro/macrosociale, culturale, di base), e questo iter consiste in una processualità emotivo-cognitiva, che corrisponde ad una progressiva precisazione, selezione ed integrazione degli elementi raccolti.
All'interno del processo diagnostico si distinguono i vari setting, ovvero le cornici operative in cui la situazione diagnostica si declina (setting dei primi colloqui clinici, setting della raccolta della storia, setting della somministrazione dei test, setting di eventuali sedute di osservazione), ed in alcuni casi questo iter diagnostico può venire ridotto.

Quando c'è collaborazione tra clinici diversi, se ci sono discrepanze di vedute, ciò non costituisce sempre una situazione problematica, ma può essere vista come uno specifico e nuovo materiale clinico da analizzare.
Le discrepanze possono evidenziare modalità di funzionamento diverse del paziente in condizioni diverse, e quindi vanno analizzate.
Possono sorgere problemi quando i clinici sono troppo rigidi e legati al proprio riferimento teorico, inoltre usare più operatori su un paziente può creare disorientamento (sempre meglio che sia una persona sola a condurre i colloqui).

Il processo di sintesi precede la restituzione al paziente, ed in tale processo è necessario tener conto di diversi fattori:
  • il quadro generale del funzionamento del paziente, in modo da avvalersi delle sue capacità di comprensione e delle esperienze precedenti
  • il motivo per cui il paziente richiede la consultazione, ed in caso di crisi, il motivo di essa
  • l'effetto che la psicopatologia del paziente fa sulle persone con cui entra in contatto
I fattori che possono ostacolare la sintesi sono:
  • il tentativo di far quadrare tutti gli elementi in un insieme logico, al posto di analizzare le varie discrepanze
  • la necessità di fare una restituzione affrettata
  • la tendenza a procrastinare comprensione e decisione, delegando tutto ciò ad un ideale terapeutico e senza tener conto delle caratteristiche strutturali del paziente
  • la difficoltà ad abbandonare uno schema teorico, quando questo risulta non adatto
La sintesi è quindi un momento decisivo del processo diagnostico, che richiede capacità di scelta ed organizzazione dei dati raccolti, e la capacità di riconoscere anche ciò che ancora non è chiaro (e che andrà quindi scoperto successivamente).
La sintesi può quindi concludersi con delle certezze, delle certezze parziali, delle ipotesi o dei dubbi.

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Tecniche del colloquio (9/16): Chi si rivolge al clinico

Bisogna innanzitutto distinguere tra utente, colui che usufruisce di un servizio pubblico, e cliente, colui che abitualmente si avvale delle prestazioni di qualcuno.
Chi si rivolge al clinico lo fa perchè prova disagio, ma non sempre questa percezione è corretta, spesso è distorta, e il primo compito del clinico è quello di valutare se la persona si sta rivolgendo al tecnico giusto.

Se le variabili intrapsichiche e interpersonali sono secondarie rispetto a elementi oggettivi di realtà, è molto probabile che sia necessario prima il parere di un tecnico diverso dallo psicologo, viceversa, l'intervento dello psicologo clinico può essere prioritario.
La richiesta di parere da parte del paziente è sempre esito di un processo decisionale, dove, grado di preoccupazione, causa della preoccupazione e percezione di malessere sono variabili soggettive correlate con l'organizzazione della personalità del soggetto.

Uno stesso disturbo può avere significati diversi, bisogna valutare dunque se è un problema evolutivo, un disagio momentaneo o una malattia (tramite il ragionamento diagnostico).
Quando si hanno poche informazioni, per creare ordine e coerenza si usano i modelli.
Un modello può spiegare un insieme di fatti o punti di vista e quindi aumentare la comprensione.
Il clinico deve dunque individuare il modello o i modelli più idonei per la comprensione del fenomeno osservato.
Secondo Engel, un modello non è altro che un sistema di credenze, e cmq di solito, la scelta del modello viene fatta a priori e mantenuta, diventando una scelta ideologica.
La tendenza a mantenere un modello teorico nonostante i dati non ne confermino sempre la bontà può essere dovuta a: l'influenza dei colleghi, la lettura dei soli articoli che confermano il modello prescelto, l'esperienza clinica che viene usata per confermare le proprie credenze.
E' invece importante che la scelta del modello sia determinata non dalla scuola di appartenenza, ma da convincimenti scientifici e dall'evidenza clinica, perchè la scelta del modello determina la definizione del disturbo psichico ed i criteri in base ai quali un sintomo è attribuito ad uno stato morboso e la relazione con la persona affetta.
L'uso del modello può essere un supporto ma anche un ostacolo per la raccolta dei dati, dato che a seconda del modello vengono usati metodi diversi d'indagine, non sempre adatti alle situazioni che si presentano, quindi l'utilizzazione acritica di un modello può essere fonte d'errore.

I modelli di disturbo psichico sono:
  • organogenetico (medico, biologico): il disturbo psichico è descritto ed analizzato secondo il modello meccanico di malattia, dove il sintomo patologico è una struttura, una funzione, un comportamento che subisce un'alterazione a causa di anomalie fisiologiche o biochimiche a livello di sistema nervoso centrale.
  • sociogenetico: disturbo psichico descritto ed analizzato come reazione sana ad una società malata, dove alcuni comportamenti devianti sono conseguenza dell'ambiente sociale.
  • psicogenetico psicoanalitico: disturbo descritto ed analizzato come esito di un conflitto intrapsichico che va interpretato.
  • psicogenetico comportamentistico: disturbo descritto ed analizzato come comportamento inadeguato, risultato di un processo d'apprendimento.
  • psicogenetico cognitivo: disturbo descritto ed analizzato come la conseguenza dell'attivazione di un sistema di codificazione più primitivo che modifica la processazione delle informazioni (bias sistematico).
  • psicogenetico sistemico: disturbo descritto ed analizzato come un deficit dei processi transazionali di adattamento, dove i sintomi sono gli effetti pragmatici della comunicazione umana.
  • bio-psico-sociale: disturbo descritto ed analizzato attribuendo importanza uguale a fattori biologici, psicologici e sociali.
I modelli sono utili solo se descrivono fedelmente i fatti e forniscono basi coerenti per l'intervento, sono dunque strumenti pratici piuttosto che astrazioni teoriche.
L'uso corretto dei modelli è possibile se il clinico: conosce le indicazioni e le controindicazioni, ha buone capacità di diagnostica ed osservazione, sa instaurare un'alleanza diagnostica con il paziente, prende le decisioni in tempo utile, sa comunicare e motivare la decisione presa.


Il problema del paziente


La sensazione o il cambiamento rilevato (indizio) assumono un significato specifico (sintomo) solo se inseriti in un quadro di riferimento specifico (la malattia, della quale non esiste ancora una definizione soddisfacente).
Il paziente percepisce la malattia come la perdita della precedente condizione di salute, ed ad essa attribuisce valori e paure in base alla propria personalità, ma anche e soprattutto in base al contesto in cui vive (società, mass media).
La persona si considera infine malata, quando la propria sensazione di non star bene viene confermata dal medico.
Secondo Goffman, lo stigma è un attributo altamente disturbante a livello sociale, e secondo Jones, prima c'è una deviazione dalla norma e successivamente questa deviazione viene affetta da attributi indesiderabili agli occhi degli altri.
Il disturbo psichico implica una situazione di sofferenza personale che deteriora le relazioni interpersonali ed il benessere del singolo individuo.
Inoltre, le credenze e gli stereotipi riducono la capacità di diagnosticare il proprio malessere e di chiedere aiuto.



Riconoscere la sofferenza


A parità di sintomatologia, alcune persone si sentono malate e chiedono aiuto, altre no.
Le condizioni che incidono sulla capacità di rilevare la propria sofferenza sono:

  • il valore soggettivo attribuito al sintomo
  • la maggiore o minore capacità di coping (gli sforzi cognitivi e comportamentali finalizzati alla gestione di specifiche richieste interne/esterne percepite dal soggetto come eccessivamente gravose e superiori alla sue risorse personali).
  • la volontà di negare la malattia
  • la personalità del soggetto, la sua cultura, la sua società, i suoi obiettivi
Di solito la persona si rivolge al clinico quando la sintomatologia modifica il suo stile di vita, ne riduce la qualità o interferisce con l'esercizio delle capacità abituali.
Inoltre il paziente deve ritenere che la sua condizione è modificabile (guaribile), deve vincere la vergogna, la paura di rivolgersi a qualcun altro e quindi la scelta di rivolgersi a qualcuno è il risultato di un processo diagnostico in proprio.
I sintomi sono le informazioni che derivano da consapevoli sensazioni del malato, mentre i segni sono i rilievi che osservatore e malato ricavano dall'osservazione obiettiva.
Quando c'è valutazione diagnostica, si può distinguere in:
  • sintomi e segni probativi e patognomonici, che permettono il riconoscimento certo di malattia
  • sintomi e segni probativi ma non patognomonici (detti oppositivi), dove la presenza di questi implica una probabilità a priori negativa o molto bassa che si tratti di una certa malattia
  • sintomi e segni non patognomonici o probabilistici, ovvero quelli di cui si calcolano le probabilità a posteriori
Quando la persona non si accorge del proprio cambiamento, può capitare che ci sia la diagnosi dei familiari, i quali possono incontrare i seguenti ostacoli:
  • abbiano anche loro un disturbo psichico
  • la malattia del familiare vada in conflitto con la rappresentazione di sè, mettendoli in difficoltà ad accettare la cosa
  • percepiscono la malattia del familiare come qualcosa di normale, che anche loro pensano di aver provato in passato
Di solito il male non viene subito individuato, il congiunto di solito prima percepisce l'ansia che qualcosa non stia andando, poi cerca un capro espiatorio (il malato), poi c'è ambivalenza e negazione alternata, compare la paura dello stigma e c'è la paura e vergogna, poi c'è un cambiamento delle mansioni (il malato viene sostituito), ed in questa caso si accetta di prendersi cura del paziente e si accetta quindi la malattia (decidendo di solito di intervenire tramite specialista).


La richiesta d'aiuto


Il paziente chiede solitamente aiuto dopo che:
  • si convince che la buona volontà non serve
  • la voglia di guarire è maggiore della paura di esser considerato matto
  • pensa sia utile parlare con qualcuno di quello che gli accade
Il paziente si rivolge al professionista perchè:
  • crede che questi possa risolvere velocemente i problemi
  • si è autodiagnosticato un disturbo psichico
  • è disperato e senza risorse
  • è disorientato perchè nessuno in famiglia ha mai avuto ciò che ha lui
  • ha la tendenza a far risolvere dagli altri i propri problemi
  • in famiglia c'è pregiudizio quindi ne parla meglio all'esterno
  • è rassicurato che un'altra persona si assuma la responsabilità della situazione
Anche i familiari seguono questo iter, anche se i loro sentimenti sono influenzati dai sentimenti nutriti verso il malato e il senso di responsabilità per la decisione.
Variabili come ansia o paure influiscono negativamente nella scelta.
La scelta dello specifico tecnico (psicoanalista, psicoterapeuta, neurologo, ecc..) è la risultante di 3 criteri:
  • Il modello etiopatogenetico usato dal paziente: la specificità del tecnico a cui si rivolge il paziente dipende dall'esito del processo di individuazione delle cause del disturbo (se la causa della sofferenza è imputata a cause organiche, andrà dal medico del corpo, se invece è imputata a cause psichiche, andrà dal medico della mente).
    Se il paziente non sa quale sia l'origine del male, sceglie la vai più facile (ad esempio il medico di famiglia), inoltre, si ha la bias del paziente quando c'è la propensione a considerare gli aspetti emotivi del problema (questi pazienti richiedono velocemente il trattamento del clinico e tollerano poco la diagnosi).
  • L'accessibilità del clinico: vari motivi (orari in conflitto con il proprio lavoro, lontananza, lunghi tempi d'attesa, ecc...) possono portare a cercare un tecnico in base all'accessibilità.
  • L'esito delle situazioni considerate simili: il paziente predilige il criterio di familiarità al criterio di competenza, si scambia informazioni con conoscenti su chi è un bravo dottore, pensa che se questi ha risolto i problemi di un suo conoscente può risolvere anche i suoi.
    I pazienti spesso scelgono più in base al carattere del medico che in base alle competenze, cmq i motivi sottesi alla decisione del paziente di rivolgersi ad un tecnico forniscono informazioni sul suo funzionamento psichico e consentono di comprendere i criteri in base ai quali ha scelto le informazioni che fornirà nella consultazione.
    Inoltre, la prima impressione del clinico sul paziente perdura a causa dell'effetto di ancoraggio, anche quando non viene confermata dall'evidenza. 


Gli strumenti dello psicologo clinico


La diagnosi è il primo passo nel processo tecnologico che permette di trasformare una persona con un fastidio non ben precisato in un paziente con un disturbo psichico definito, essa serve per fare predizioni sul comportamento del paziente, la lunghezza del trattamento ed il tipo di intervento da attuare.
Il processo diagnostico è l'iter che il paziente percorre assieme al clinico allo scopo di rilevare e circoscrivere l'ampiezza e l'entità dei disturbi lamentati, attribuire loro un significato e individuare possibili strategie d'intervento per ridurre, modificare, eliminare, la causa della sofferenza.
Nel processo diagnostico bisogna:

  • ascoltare attentamente le informazioni fornite dal paziente e capire cosa egli dica
  • decidere se il paziente si sta rivolgendo al tecnico giusto
  • stabilire se il disturbo lamentato corrisponde col disturbo realmente posseduto
  • individuare le informazioni significative che possono esser state omesse
  • acquisire le informazioni necessarie per scartare ipotesi errate o risolvere dubbi diagnostici
  • formulare una diagnosi che può anche non corrispondere con quella fatta dal paziente
Non esiste osservazione che sia indipendente dalla teoria, l'osservazione è sempre selettiva ed i dati raccolti sono correlati con la capacità tecnica del clinico, con l'adeguatezza degli strumenti di rilevamento e con la psicopatologia del paziente.
Il clinico deve ascoltare quello che dice il paziente e deve vincere la tentazione di catalogare e teorizzare tutto ciò gli viene riferito, e nel processo diagnostico, il clinico dai primi sintomi può formulare delle ipotesi, poi fare altre supposizioni, riformulare le ipotesi iniziali se necessario, ed in fine, quando ci sono abbastanza dati, prendere delle decisioni (assumendosi delle responsabilità).

Il ragionamento clinico
E' la trasformazione di giudizi inconsci, sensazioni e conoscenze in qualcosa di più esplicativo, ed il suo punto di partenza è di solito costituito da piccoli indizi.
Il ragionamento clinico deve essere:
  • pronto ad esplorare nuove strade
  • attento ad individuare problemi e soluzioni
  • disponibile a ristrutturare la propria comprensione in base ai dati ottenuti
  • convinto che conoscenze e comprensioni sono dovute ai propri processi cognitivi
  • capace di assumere punti di vista opposti rispetto ad un unico argomento
  • capace di distinguere aspetti originali da bizzarrie
  • capace di individuare la complessità del problema e le priorità
  • capace di cogliere i feedback, non prendendo tutto per buono ciò che arriva dalla società e la cultura corrente
Spesso però il clinico deve prendere decisioni anche in mancanza di abbastanza dati e in condizioni emotive difficili.
Può succedere che osservando il paziente: si osservi solo quello che si vuole rilevare, si tiene conto solo delle informazioni che confermano le proprie ipotesi, si pongano domande in modo da provocare solo i comportamenti di conferma.
Il ricorso ad euristiche (rappresentatività, disponibilità, ancoraggio) permette di semplificare i processi decisionali, ma anche essere fonte d'errore, inoltre il loro utilizzo è spesso automatico ed inconscio.
Il clinico inoltre può compiere i seguenti errori:
  • può essere troppo sottomesso alla propria teoria di riferimento
  • può sentire la necessità di etichettare subito tutto
  • può essere troppo preoccupato a raccogliere dati, tralasciando gli aspetti qualitativi della comunicazione
  • non dar spazio ad altro materiale emerso, se non presente nella propria griglia
La diagnosi e la predizione inoltre correlate: la predizione implica la capacità di ragionare partendo dalle condizioni attuali per arrivare agli esiti futuri, la diagnosi implica la capacità di ragionare sui sintomi e sui segni fino ad individuarne le cause ad essi precedenti.


Gli errori del clinico


Il ragionamento clinico si scompone in:
  • trattamento delle informazioni: acquisizione dei dati, formulazione di ipotesi, interpretazione dei dati, valutazione delle ipotesi
  • impiego di modelli causali
  • presa di decisione
E' possibile classificare gli errori del clinico in base alla sede, natura o alla motivazione o al modo in cui il clinico raccoglie le informazioni e formula diagnosi, inoltre gli errori possono essere accidentali o sistematici (dovute a cause costanti).
Gli errori commettibili nell'acquisire informazioni sono:
  • immettere un dato di osservazione errato o valutato scorrettamente
  • accettare termini impropri o imprecisi di cui non si conosce il reale significato per il paziente
  • immettere dati non rilevanti che ostacolano il processo di interpretazione
  • ridurre o non rilevare i dati che porterebbero ad esiti negativi
Gli errori nello svolgere operazioni logiche sono:
  • nel processo di catalogazione e comparazione dei quadri morbosi
  • nella spiegazione deduttiva
  • nella spiegazione induttiva
  • nel ridurre o non rilevare la complessità del fenomeno
  • nel ricorso a schemi non adeguati o nell'applicazione di modelli causali
Il clinico può sbagliare perchè non sa, perchè ha difficoltà a prendere decisioni, perchè non ama l'incertezza, perchè usa euristiche, perchè seleziona ciò che gli viene detto in base ad un suo bias, presenta cambiamenti d'umore che possono renderlo anche meno obiettivo, può sbagliare per via di fattori percettivi e cognitivi.
In generale si può cmq dire che l'errore clinico è spesso un errore conoscitivo, e la probabilità d'errore aumenta quanto più il problema è interpretativo o inferenziale.
Ogni problema non è solo un problema cognitivo, ma implica il maneggiamento di emozioni che l'esposizione al problema provoca in lui.
Alcune ricerche han dimostrato che si ricordano più facilmente gli eventi che rispecchiano il tono d'umore del momento in cui si sono verificati, e le reazioni emotive del clinico condizionano ciò che si rileva, il modo in cui organizza le informazioni e la sua capacità predittiva (ad esempio un tono d'umore positivo aumenta la capacità di problem solving, anche se a volte può avere conseguenze negative, facilitando la tendenza a semplificare i compiti complessi e a privilegiare strategie di decisione semplificate).

Il clinico giovane ha meno esperienza ma è più fresco di studi (e dovrebbe essere quindi più aggiornato), il clinico vecchio ha più pratica ma i suoi processi decisionali possono essere più rigidi e stereotipati.
Tuttavia c'è da sottolineare che le capacità cliniche non sono un'arte, ma il risultato di un duro addestramento, tuttavia l'esperienza modifica solo parzialmente le caratteristiche personali che potrebbero danneggiare il lavoro del clinico (es. essere impaziente, non tollerare l'incertezza, ecc...).
Alcune ricerche dimostrano che i clinici, indipendentemente dall'esperienza, tendono a soggiacere nella stessa misura alle proprie preconcezioni, quindi sembra che la figura più professionale sia quella del clinico esperto (ha maggiori conoscenze, è più pratico e rapido nel reperire informazioni, tollera meno l'incertezza).
Il clinico inesperto può avere più facilmente correlazioni illusorie, ovvero prestare più attenzione ai dati compatibili con le sue preconcezioni, e questo è sinonimo di insicurezza nei confronti delle proprie capacità decisionali.
Il clinico inesperto è più soggetto all'ansia e per risolvere le discrepanze tra le proprie conoscenze e i dati che vengono alla luce, può cercare di risolvere il dilemma cognitivo tramite covariazioni erronee o distorte.
L'inesperto prende le decisioni basandosi su pochi dati, rispetto a tutti i dati in proprio possesso, e spesso avere più dati non è visto come un miglioramento della precisione diagnostica, ma svolge solo una funzione di rinforzo e rassicurazione per il clinico.
L'inesperto spesso usa dati di evidenza diverse per confermare le proprie ipotesi, ai quali attribuisce impropriamente lo stesso valore.
Altri fattori che influiscono negativamente sul novellino sono: la fretta, di concludere il caso per far contento il paziente (o per non esser sotto pressione da parte dei parenti), la fretta di fare carriera, e le aspettative dei colleghi.
In alcuni casi, la discrepanza tra i dati raccolti può indicare un duplice livello di funzionamento del paziente e la sua diversa modalità di risposta in contesti differenti, ed il clinico inesperto può esser tentato a nascondere queste diversità, piuttosto che a studiarle.


Riflessioni metodologiche


Il paziente ha bisogno di essere aiutato ad intuire che esiste un metodo che guida il susseguirsi delle operazioni del clinico.
L'oggetto del metodo clinico è il funzionamento globale del paziente e le tecniche/procedure adottate sono accettabili solo se permettono di conoscere e descrivere questo funzionamento.
La centratura è quindi più sul malato che sulla malattia o le competenze del clinico, il quale deve salvaguardare le condizioni oggettive e soggettive che massimizzano la sua capacità di comprensione.
La consultazione diagnostica è quell'operazione clinica deputata al raggiungimento della comprensione ed è considerata lo specifico metodologico della psicologia clinica.
Lo scopo della consultazione diagnostica può essere raggiunto solo se il clinico non consente a nessun modello di bloccare la sua capacità di cogliere la realtà del paziente, e la presa in carico della terapia può avvenire solo dopo che la consultazione ha raggiunto l'obiettivo di diagnosi funzionale e quest'ultima è stata consegnata al paziente tramite la restituzione.


Lo psicologo clinico fa delle consultazioni diagnostiche e si occupa di diagnosi funzionale, mentre lo psicoterapeuta conduce un lavoro che ha un proprio razionale specifico, diverso in rapporto al modello di disturbo psichico privilegiato dal particolare tipo di terapia.
Non tutti gli psicologi clinici sono psicoterapeuti e non tutti gli psicoterapeuti sanno fare i clinici (anche se la legge gli permette lo stesso di svolgere la consultazione diagnostica).

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Carandiru

Carandiru è un film drammatico del 2003 diretto da Hector Babenco, con Luiz Carlos Vasconcelos, Milton Gonçalves, Ivan de Almeida, Ailton Graça, Maria Luisa Mendonça, Aida Leiner, Rodrigo Santoro, Rita Cadillac, Gero Camilo.

Carandiru
Trama
Un medico volontario si reca nella prigione di Carandiru, a San Paolo in Brasile, per portare avanti un programma di cura e di prevenzione dell'AIDS.
Con il suo lavoro questo medico imparerà a conoscere a fondo un po' di detenuti di Carandiru, scoprendo cosa questi facevano prima di finire in prigione, ma anche come ora vivono e sopravvivono in quello che è considerato da tutti uno dei più duri carceri del sud America.

Recensione
Carandiru è un film tratto dall'omonimo libro, che a sua volta è stato scritto ispirandosi ai tragici fatti accaduti in quel carcere prima della sua chiusura (clicca qui se vuoi sapere cosa è successo a Carandiru).
Io sono appassionato di film sulle prigioni, ma questo Carandiru a mio avviso non è fatto benissimo.
La ricetta è sempre quella: far vedere come vivono i detenuti e raccontare qualche storia di questi.
Diciamo che nel complesso diverse storie, o per meglio dire, il modo in cui sono raccontate, risulta un po' noioso e poco interessante, e che si poteva fare di certo di meglio visto il tema.
Nel complesso comunque Carandiru, si salva nel finale, quindi a mio avviso è un film da vedere per gli amanti dei film del genere gabbio.

Link alla scheda del film su wikipedia

Come configurare il wifi su android huawei

Hai un cellulare android huawei e non sai come settare il wifi per collegarti ad internet senza usare la tua connessione dati?
Nessun problema, continua a leggere per scoprire come configurare il wifi su android huawei.

Prima di tutto, entra nelle Impostazioni del tuo telefonino e troverai come prima voce nella sezione Wireless e reti, la dicitura Wi-fi.

Come configurare il wifi su android huawei

Nella nuova finestra che si aprirà, prima di tutto attiva il wifi cliccando sul bottone in alto a destra (se disattivato).

Adesso hai due possibilità.

La prima e più veloce è quella di selezionare la rete a cui collegarti dalla lista delle reti disponibili, cliccando sul nome desiderato ed inserendo l'eventuale password d'accesso.

seleziona una rete

La seconda possibilità è quella di aggiungere una rete nascosta.
Con questa opzione potrai aggiungere tutte quelle reti che, per motivi di sicurezza, non sono visibili nella lista delle reti disponibili.

Scrolla la pagina in basso fino a che non appare la voce Aggiungi rete, poi cliccaci sopra.

aggiungi rete

Adesso compila i campi SSID rete, ovvero il nome della rete a cui vuoi collegarti, poi seleziona una chiave di sicurezza, presumibilmente WPA/WPA2, inserisci la password ed infine clicca su Salva.

configura rete nascosta

Se avrai inserito tutti i dati correttamente, dopo aver salvato questa rete, il tuo smartphone proverà a collegarcisi subito, ed in caso negativo ti darà un errore di connessione.

The butterfly effect

The Butterfly Effect è un film thriller del 2004 diretto da Eric Bress, J. Mackye Gruber, con Ashton Kutcher, Amy Smart, Melora Walters, Elden Henson, William Lee Scott, Eric Stoltz, Ethan Suplee, Callum Keith Rennie, John Patrick Amedori.

The butterfly effect
Trama
Il giovane Evan scopre di avere un particolare potere ereditato da suo padre, quello di poter tornare indietro nel tempo leggendo dei ricordi scritti.
Evan userà questo suo potere per cambiare il destino delle persone a lui più care, scoprendo però che ogni azione ha una conseguenza, e che non è facile fare felici tutti.

Recensione
The butterfly effect è un bellissimo thriller del genere psicologico.
Si tratta di viaggi nel tempo o nella memoria? Chi lo sa.
Quel che è certo è che questa nuova interpretazione dei viaggi nel tempo è davvero riuscita e d'effetto.
Un film ben girato che non annoia mai, dall'inizio alla fine ti tiene incollato alla sedia.
Peccato solo che in alcune versioni, soprattutto quella televisiva, sia pesantemente censurato, tanto che alcune scene non si capisce proprio cosa succede.

Link alla scheda del film su wikipedia

domenica 19 giugno 2016

Come fare chiamate anonime col cellulare android

Se hai un telefonino con su android e magari è un bel huawei, forse ti interesserà scoprire come chiamate anonime col cellulare.

Effettuare una chiamata anonima con lo smarphone può risultare utile in certi casi in cui si vuole chiedere informazioni a dei numeri di cui non si conoscere la reale affidabilità, per fare in modo di poter telefonare rimanendo anonimi e non venir poi ricontattati in seguito senza permesso.

Vediamo dunque come effettuare chiamate anonime con il cellulare android huawei.

Prima di tutto, entriamo nel menù delle telefonate.
Nel menù delle telefonate (Componi) ci si può arrivare in diversi modi, uno è quello di cliccare sulla cornetta dove si clicca di solito per fare le telefonate.

Adesso, clicchiamo sulle 3 righe orizzontali a destra nella pagina per aprire un menù a tendina ed entriamo in Impostazioni chiamate.

Come fare chiamate anonime col cellulare android

Nella schermata che si aprirà, andiamo in fondo e clicchiamo su Altre impostazioni.

altre impostazioni

Adesso clicchiamo su ID chiamate e nel popup che si aprirà selezioniamo la voce Nascondi numero se si vuole nascondere il proprio numero di telefono a tutti con il proprio telefonino android, oppure su Mostra numero per... chettelodicoaffare ;)

nascondi numero

Ecco fatto, ora potrai fare tutte le telefonate anonime che vuoi.
Ovviamente non ti mettere a fare scherzi telefonici sfruttando l'anonimato, perchè se la fai grossa e ti denunciano possono comunque risalire alla tua vera identità, e poi sono cavoli amari :)

Come vedere il PageRank di un sito

Il PageRank di google, o PR per gli amici, è quell'indice che attesta la popolarità del tuo sito sulla rete, secondo google.
Il page rank di un sito si incrementa quando un sito viene linkato più volte in giro per il web.

Attenzione però, devono essere dei link veri (backlinks), dove poi ci clicca la gente, altrimenti google se ne accorge e capisce che si tratta di scambio di link o di spam per aumentare la popolarità del proprio sito, e si ottiene l'effetto opposto, ovvero si viene penalizzati dai motori di ricerca.

Vediamo dunque come vedere il PageRank di un sito utilizzando un servizio online.
Per calcolare il pagerank di un sito internet, collegarsi a questo indirizzo:
http://www.prchecker.info/

Nella pagina dal titolo Free PAGE RANK Checker for your Web site, inserire nel box di testo l'indirizzo del sito web di cui si vuole scoprire il pagerank e poi cliccare su Check PR.

Se appare l'anti-bot captcha, inserire i numeri e le lettere che appaiono a video e poi cliccare su Verify now per finire finalmente nella pagina con il risultato finale.

Come vedere il PageRank di un sito

Ehm, nel mio sito sono messo ancora maluccio (0/10)... ma datemi tempo :)

Avere un buon pagerank è una cosa molto importante per far sì che il proprio sito salga nelle posizioni dei risultati di google, sbaragliando la concorrenza.
Però ovviamente, per aumentare il pagerank di un sito internet, ovvero per aumentare l'autorevolezza del sito, ci vuole molto tempo e pazienza.
Più si scrivono cose interessanti, e più queste vengono condivise nella rete e soprattutto cliccate, e più il page rank aumenta, e più il proprio sito diventa famoso e visitato :)